La Sacra di San Michele: un luogo sacro da sempre

3 Aprile 2020 · Notizie · Ultimo aggiornamento il 3 Aprile 2020

AV – Piemonte.

A pochi passi dalle Alpi.

Remoti tempi che furono.

Civiltà lontane e scomparse. Ormai seppellite. Preistoriche.

Alle falde del Monte Pirchiaro l’uomo delle caverne, a Vaie e a Villarfocchiardo, si stanziò costituendo delle tribù di pastori.

In seguito, l’uomo -stabilendosi definitivamente in epoca neolitica- diede origine a piccoli insediamenti di agricoltori; a questo periodo risalgono i palafitticoli dei laghi di Avigliana e di Trana.

La zona passò poi ai Liguri -che la fortificarono- e che vi rimasero fino all’anno 66 d.C., quando si instaurò il dominio di due re. I Romani offrirono il luogo alle divinità alpine, di questa pratica ne lasciarono traccia su alcuni pezzi marmorei epigrafici a noi pervenuti.

La toponomastica è singolare: “Pirchiriano” è l’antichissimo appellativo del monte che letteralmente –dal latino- è “Porcarianus” -ossia “monte dei Porci”-. In maniera analoga, vicino a questo monte si colloca “Caprasio” -e cioè il “monte delle Capre” – unitamente a “Musinè” che è il “monte degli Asini”. Questi nomi così strani hanno certamente un legame col culto dei Celti, popolazione –come già osservato- che tra le prime occupò la Valle di Susa.

Visitare o rivisitare la Sacra è un’opera di pietà. È un’ascesi. Un’espiazione. Un cammino verso la vetta. Una vibrante camminata che diviene preghiera per i nostri passi. Una sorta di itinerario che affonda su di un cammino storico. In breve un pellegrinaggio peregrinante.

Pregevole lo slancio di chi vuole cogliervi una sacralità diffusa -che tutta l’avvolge, come un’aurea mistica- con quella sua soverchiante ispirazione cristiana celata fra le arcate della chiesa, gli alti archi, le scale sontuose e ripide, l’erpicarsi, quasi su di una vetta della luce.

Visitare la Sacra –però- vuol dire lasciarsi suggestionare.

Certo bisogna aguzzare i sensi, saper ascoltare le arditezze architettoniche, saper gustare le bizzarre sculture medioevali, lasciarsi dissetare dagli infiniti gradini fatti di pietra.

Visitare la Sacra vuol dire –in un certo senso- depauperare con la nostra visita lo stesso complesso e mortificare la Sacra.

Il poeta Clemente Rebora, non a torto, la definisce “culmine vertiginosamente santo” cantando mirabilmente la sacralità di un luogo senza eguali.

Il complesso monumentale della Sacra con la sua storia- deve la sua titolazione a San Michele perché nasce e cresce attorno al culto dell’Arcangelo e lungo la Via Micaelica.

San Michele è da sempre venerato come “il principe delle milizie celesti” nonché braccio destro della divinità.

Il cronista dell’abbazia clusina a metà dell’XI secolo così annotava: «sappiamo, in base a molti documenti della sacra scrittura, che il beato Michele, per volere di Dio, non solo possiede in cielo il primato tra i cori della milizia celeste, ma anche in terra possiede, per così dire, un principato (…) soprattutto nelle plaghe occidentali (…). Infatti nelle regioni occidentali l’Arcangelo del Signore ha scelto per se, in modo specialissimo, tre luoghi illustri (…): il primo è il monte Gargano, ormai notissimo in tutto il mondo; il secondo, vicino all’oceano Atlantico, si chiama Presso-il-pericolo-del-mare1; il terzo2, posto giustamente in mezzo alle cime elevate dei monti (…), dove si può contemplare più da vicino la maestà divina».

Certamente si potrebbe sprecare molto altro inchiostro ma appare esaustiva questa definizione così pertinente a cui vogliamo aggiungere il testo del monaco Guglielmo che scriveva ciò che ancor oggi risponde al vero: «il luogo è lontano da ogni impaccio e moderno tumulto: qui non strepito d’uomini e d’animali; non frastuono, non ruggiti: la pianura d’Italia, con ameni paesaggi e fiumi, vi si stende a far lieti gli sguardi umani (…)».

Un’arte, quella della Sacra, che è tutta religiosa, fatta di preghiere, di litanie. Pietre di fede che cantano una Lode solenne a Dio.

La storia della religiosità del complesso emerge con forza; avvicinandoci alle gigantesche audacissime costruzioni architettoniche abbiamo la sensazione di penetrare quasi in una Creatura che rimanda al Creatore. Un complesso vasto e intricato in cui la conoscenza dell’architettura è resa dall’incedere lento e religioso penetrando –quasi- verso il cielo.

Le opere scultoree e quelle figurative sono tutte di ispirazione religiosa. Gli affreschi cinquecenteschi, tavole e tele abilmente istoriate, testimoniano una composta devozione mariana.

La difficoltà è rendere cosa faccia fremere l’animo del visitatore che quest’oggi si approssima alla Sacra. È un percorso interiore reso esteriormente mediante l’andare verso (dal greco antico “erchomai”). A livello generale si può cogliere l’intero complesso sotto vari aspetti: artistico, storico, panoramico, fantasioso, o addirittura magico.

Le sculture bibliche intarsiate sul portale dello zodiaco e quelle che fanno corona al finestrone dell’abside centrale, con profeti ed evangelisti cantano al sole nascente, in compagnia d’una stupenda Annunciata, dal volto d’una dolcezza mistica, opera datata tra il 1160 e il 1170. Da qualunque parte si guardi, la Sacra emana un fortissimo senso religioso. Le volte della basilica, le colonne austere, le atmosfere mistiche, le decorazioni auliche ed al contempo ieratiche, la sagoma svettante, sono tutte così terribilmente pregne di spiritualità da coinvolgere ed avvolgere il visitatore. Le pietre pare abbiano conservato ancora –a distanza di molto tempo- l’eco di delicate note gregoriane, il canto che da secoli qui si fa preghiera e si fa poesia. Quando la vista si posa su alcuni ruderi -mute Rovine-, su resti di mura silenziose e misteriose che per secoli hanno accolto un intenso vissuto spirituale e culturale.

Il culto all’Arcangelo Michele si diffonde in Italia dall’Oriente.

La sua diffusione si ha maggiormente in luoghi elevati e solitari. In ambiente alpino viene portato forse fin dai secoli VI e VII.

Il glorioso Arcangelo Michele venne celebrato per oltre un secolo dai Longobardi. Il loro ricordo è marchiato nella toponomastica locale ove i protettori -San Michele, San Pietro e Sant’Ambrogio- davano nome a villaggi.

Sotto le coste del monte armarono le “Chiuse” con fortilizi che vennero espugnati nel 773 da Carlo Magno. Stranamente quassù i carolingi non lasciarono ricordo -ma la loro scomparsa- alla fine del secolo IX, fu causa di tali scompigli da permettere ai Saraceni l’invasione delle Alpi Occidentali e quasi certamente l’occupazione del Pirchiriano.

Il loro nome rimase invece in alcune località –ad esempio la Bonaria– quali “Truc Sarasin”.

La Chiesa verso il Mille accrebbe il proprio potere economico, rendendo possibile l’acquisizione di beni immobili. La costituzione della Diocesi man mano consentì di esercitare sui propri fedeli giurisdizione civile. Ed anche la zona del Pirchiriano passò al Vescovo di Torino.

Verso la fine del X secolo la vetta del monte non aveva ancora una titolazione. Nel frattempo sopraggiungono alcuni monaci.

Il primo fu San Giovanni Vincenzo –uno dei discepoli di San Romualdo, monaco benedettino e padre fondatore dell’Ordine dei Camaldolesi- iniziò quassù la vita eremitica -assumendo la Regola Camaldolese-. Morirà nell’Anno Domini 1000 a Celle sul monte di fronte al Caprasio.

Alcuni monaci benedettini nel frattempo si stabilivano sul monte Pirchiriano. Tracce delle origini e dell’edificazione del complesso sono descritti nella cronaca del monastero, i testi narrano l’epica edificazione e consacrazione d’una prima chiesetta per mano angelica. Quest’opera angelica consente la titolazione della Sacra -il nome dovrebbe esser “la consacrata” – che viene poi esteso a tutte le successive costruzioni. La storia delle origini di questo complesso si deve certamente anche all’impegno economico di un penitente –il conte Ugo di Montboissier– che fece erigere un monastero affidandolo a cinque benedettini.

La storia dell’abbazia benedettina presso il monte Pirchiriano inizia negli anni 983-87 e continuerà sino al 1622. Durante questi sette secoli venne governata da 27 abati monaci, cui successero sfortunatamente 26 commendatari.

Il periodo di migliore fulgore si ebbe tra la fondazione a la metà del Duecento, nel periodo successivo invece l’abbazia evidenziò una perdita considerevole; seguì mezzo secolo di decadenza.

Nei primi sessant’anni del Trecento la vita si rinnova sotto il prudente governo degli abati: Guglielmo III di Savoia, Rodolfo di Mombello, Ugone di Marbosco.

Gravissimi disordini si ebbero sotto il governo dell’abate Pietro di Fongeret. A seguito di questi il conte Amedeo VI ricevette l’istituzione della commenda dal Sommo Pontefice Urbano VI.

Durante il periodo compreso tra il 1381 e il 1622 la comunità monastica venne retta da “priori”, mentre -sempre lontani dal monastero- gli “abati commendatari” gioivano delle rendite.

Nel 1622 Sua Eminenza Reverendissima il Signor Cardinale Maurizio di Savoia – “abate commendatario” – riuscì a convincere il Sommo Pontefice Gregorio XV per far sopprimere il monastero; le motivazioni erano molto evidenti: il monastero era pressoché disabitato, ormai erano rimasti soltanto tre monaci- uno dei quali cieco!

Viene appositamente creata la collegiata dei canonici di Giaveno, cui spettava la gestione del complesso monastico della Sacra di San Michele.

I possedimenti della Sacra di San Michele appaiono straordinariamente numerosi. L’estensione giungeva sino a proprietà in Francia e Spagna, nella Savoia e in Piemonte, in Lombardia e nelle Puglie, tramite una formula con-dominio feudale sulla bassa Val di Susa e Valsangone. Sino all’anno 1697 la Sacra controllava 176 territori con diritti spirituali, amministrativi, civili e penali.

Un capitolo spiacevole e purtroppo frequente è dominato da assalti e rovine.

Iniziando dal periodo a cavallo del Mille sono diversi i tentativi riportati dalle cronache. Il più cruento riguarda l’incursione del 1076 quando il santo abate Benedetto II ed i suoi monaci vengono scacciati dal monastero da Cuniberto, vescovo di Torino.

Nei secoli successivi vi furono numerose distruzioni, in particolare si vuole ricordare un gravissimo incendio sotto l’abate Rodolfo di Mombello (1325-1359).

Nondimeno, vengono segnalate scorrerie addirittura di bande inglesi –alla volta dell’avventuriero Guglielmo Bosons, al soldo di Filippo d’Acaia– che saccheggiarono la vallata ed il monastero simbolo dell’intero territorio.

Successivamente -con il periodo della Riforma Protestante- occorre segnalare le innumerevoli lotte armate tra Francia e Spagna che rendono il complesso monastico un vero baluardo conteso fra i rivali.

Nell’anno 1629 viene parzialmente distrutto dai francesi di Richelieu. Anche nell’anno 1693 le truppe del Catinat tentarono di espugnarlo, distruggendo parte della struttura.

I francesi nel 1706 ridussero il monastero nuovo alle rovine che vediamo. Furono invece lasciate le costruzioni addossate alla “porta di ferro” che -sino dal secolo XII- formavano un vero e proprio impedimento difensivo, piantonato a turno dagli uomini del feudo abbaziale.

La Sacra di San Michele restò quasi disabitata per oltre due secoli dopo seicento anni di vita monastica retta dalla regola benedettina, custodita solo da un cappellano ed un romitorio.

Il re sabaudo Carlo Alberto nel 1836 ottenne che il Sommo Pontefice vi chiamasse Antonio Rosmini con la congregazione religiosa da lui fondata, chiamata “Istituto della Carità”. Simultaneamente il re consegnava in custodia ai Padri Rosminiani –nuovi guardiani della Sacra- le spoglie di ventiquattro reali di casa Savoia che -trasferite dal Duomo di Torino- ora sono sepolte in basilica dentro mastodontici sarcofagi di pietra.

L’assegnazione di questa antica Abbazia fa risaltare la profondità del pensiero di Antonio Rosmini che –nei suoi scritti Ascetici- ricorda ai suoi religiosi la priorità della vita contemplativa.

La spiritualità rosminiana è la sorgente e il cibo che dà il “senso” e il “gusto” ad ogni attività esterna. Nella “vita attiva” il consacrato accede solo dietro chiamata della Provvidenza e tutte le attività, in qualsiasi luogo o tempo, sono per lui buone se lo perfezionano nella carità di Dio.

Anche dopo l’iniqua legge dell’incameramento dei beni ecclesiastici nel 1867 i padri Rosminiani rimasero alla Sacra. Quest’Ordine è custode tuttora del complesso un tempo benedettino, mentre le mura sacre echeggiano d’un insolito fervore di iniziative.

Il Sommo Pontefice San Giovanni Paolo Pp II visitò personalmente il 14 luglio dell’anno 1991 il complesso della Sacra di San Michele.

L’attività della vita di questo complesso monastico a tutt’oggi è resa possibile, incoraggiata ed esortata dalla presenza di tanti volontari, sorretta da enti pubblici e privati.

Con una legge speciale n. 68 del 21 dicembre 1994 viene istituita «la Sacra monumento simbolo del Piemonte» e ribadita la custodia e gestione in capo ai padri Rosminiani.

Nell’ambito dell’Italia settentrionale il complesso della Sacra di San Michele è stata una delle più gloriose abbazie benedettine ed è tra i più grandi complessi architettonici di epoca romanica in Europa.

La Sacra sorge tra il 983 e il 987 per rispondere alle esigenze di una cultura del pellegrinaggio –a metà del percorso fra il Mont Saint-Michél e la grotta santuario sul Monte Gargano– e destinazione essa stessa di un’energica ed elitaria frequentazione quale santuario micaelico.

Già alla fine del secolo scorso l’intero complesso è oggetto di un’intensa attività di ristrutturazione da parte del D’Andrade.

La scuola di pensiero “conservativa” ha prevalso negli interventi presso la Sacra che gode oggi di un rinnovato interesse di restauri conservativi.

Una cappella cimiteriale a forma ottagonale è chiamata “Sepolcro dei Monaci”, da taluni storici ritenuti i resti di un antico tempio, ciò nonostante oggi si mostra più realistica l’ipotesi che vede in questa cappella -caratterizzata dalla forma ad ottagono- la riproduzione esatta del Santo Sepolcro, quasi un anticipo ai pellegrini del Sepolcro di Gerusalemme. Questa sottolineatura indica la “pre-visione gerosolimitana”, una piccola translatio Hierosolymae.

La Sacra di San Michele è luogo di forte evocazione della morte e resurrezione di Cristo. Il complesso avrebbe dovuto anche richiamare a quella Gerusalemme celeste ancor più di quella terrena, umana e mortale.

Appare tutt’altro che disdicevole la costruzione dello stesso Monastero poco oltre i resti ove si ergeva il Sepolcro è simbolo e preannuncio di una civiltà nuova –celeste, non terrestre- o addirittura “terra promessa”.

Il Sepolcro dei monaci

Il complesso della Sacra si presenta come una spettacolare realizzazione che fascia tutta la vetta rocciosa del monte Pirchiriano.

La Sacra, iniziata negli ultimi anni del 900, si sviluppa attorno a una chiesetta tricora intitolata all’Arcangelo San Michele.

L’edificazione continua dall’XI al XIV -nel corso di quattro secoli- diventando uno dei maggiori complessi abbaziali benedettini d’Europa, certamente il più famoso nell’Italia Settentrionale.

L’ingresso alla Abbazia è l’immagine più forte di tutto il complesso. Si ha come la sensazione di una “apertura/pertugio” che immette in una sorta di vera e propria creatura. È sicuramente la parte più imponente dell’ abbazia.

41 metri di altezza. Un massiccio pietroso che può “spiazzare” il pellegrino. Chi vi scrive è restato letteralmente basito nell’osservare come su di uno scoglio montuoso si sia realizzata una simile struttura.

La facciata si presenta come un vero “massiccio”. Cogliamo vari elementi, ma sostanzialmente due registri: uno di vera e propria facciata, rotto da un altro costituito dall’area presbiteriale dell’abside della chiesa di San Michele.

A livello funzionale questo stesso organo è leggibile anche in base all’ordine delle pietre la combinazione coloristica e geometrica delle linee rette dello zoccolo grigio-ferrigno con le curve piene della chiesa verdognola, coronata dall’abside centrale e da quel trionfo di galleria ad archetti -detti “viretti”- fra i migliori esempi di logge absidali romaniche.

I monaci benedettini si accinsero a costruire un ciclopico lavoro di basamento intorno alla prima metà del XII secolo, per erigervi sopra la grande chiesa a cinque absidi.

Dal 24 settembre 2005 è collocata nella vicinanza della rampa di scale esterne prossime all’accesso al basamento della chiesa, vi è la statua di San Michele Arcangelo creata dall’artista Paul dë Doss-Moroder.

Al piano della chiesa dedicata all’Arcangelo si sopraggiunge dal piano d’ingresso attraverso un ampio e rapido scalone.

Oltrepassati i primi scalini sulla sinistra troviamo un pilastro di oltre 18 metri che sostiene il pavimento della sovrastante chiesa, alla destra sporge una larga roccia che si smarrisce pian piano nel muro di fronte. Tutto sembra così scenografico, silenziosamente afono.

Lo “scalone dei Morti”, così chiamato perché durante i recenti restauri, fra archi arditi, tombe e ampie nicchie sono stati rinvenuti alcuni scheletri di monaci, di qui il nome.

Certune delle tombe che accoglieva -ornate di marmi- altre intonacate e dipinte: esse vennero più volte manomesse. Oggi ne vediamo solo cinque.

La Porta dello Zodiaco è in cima al rapidissimo scalone che domina il silenzio dei secoli. Il lavoro degli scultori è formato da frammenti marmorei. Sullo stipite alla destra di colui che sale si evidenziano i segni dello zodiaco e su quello di sinistra altre costellazioni.

Il Portale d’ingresso si trova sull’ultima rampa, una sontuosa scala di pietra verde. Quattro massicci contrafforti e archi rampanti progettati dall’architetto D’Andrade e ultimati nel 1937.

È impossibile che l’osservatore non lanci lo sguardo verso l’infinito. Dall’alto si apre, verso la piana sottostante, una delle più belle panoramiche sulla pianura torinese. La visuale dalla Sacra è un vero cannocchiale, mozzafiato. Anche per questo, nel corso degli anni, è stato sempre ambito da varie milizie per stabilire la loro base logistica.

Lo stupendo portale romanico in pietra grigia e verde si trova su di uno spazioso ripiano. Nei primi anni del Mille venne costruito dagli architetti di Ugone.

Il portale presenta un’ampia apertura –di fattura romanica- tutto archi, cordoni sostenuti da semicolonnine a capitelli floreali, così rassicuranti, imprimono sicurezza, accoglienza e calma.

La testa di un monaco incappucciato sovrasta dall’alto il gocciolatoio che termina a destra. Sulla sinistra un tempo una testa di ragazzo, oggi scomparsa.

Le colonnine con archetti trilobati sulla destra e sinistra, resti del portico che proteggeva il portale.

La porta è stata eseguita nel 1826, i cui battenti esibiscono il diavolo in forma di serpente ma con volto umano e le armi di San Michele Arcangelo.

L’interno della Chiesa dal 1937 ha subito grandiosi restauri, iniziati con la ricostruzione della volta centrale a crociera. La sala liturgica si presenta a tre navate, è stata creata -in parte- direttamente sul monte, difatti sotto il primo pilastro a sinistra affiora come la cima. Il tempio a oriente è sostenuto da un imponente basamento.

La chiesa di San Michele riesce a dimostrare -nel suo insieme- il graduale modificarsi dell’arte da romanica in gotica, passaggio dal secolo XII al XIII che dimostra la sua datazione.

Nella cornice strombata del finestrone absidale delle figure dei profeti maggiori tra i quali Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele. La parte inferiore è coperta dalla scena dell’Annunciazione dell’Arcangelo Gabriele a Maria: occorre sottolineare lo sguardo -meritevole di considerazione per la scelta estetica e la costruzione prospettica della visione resa- l’atteggiamento di questi ed il viso dell’Annunciata, ricco di intesa spiritualità e mistica dolcezza. Al di sopra delle lesene absidali troviamo alcune sculture, raffiguranti i quattro evangelisti nei loro relativi simboli, da destra: un angelo -simbolo di Matteo-, il leone –Marco-, il bue -che raffigura Luca- e l’aquila -che è Giovanni-. È certamente degna di essere ammirata in contemplazione, per accogliere l’intenso messaggio religioso.

Il Santuario di San Michele, contenuto nel complesso della Sacra, ha avuto alterni momenti e fasi di costruzione.

Il primitivo sacrario è composto di tre sacelli absidali, messi da parte entro un cantuccio -il più antico della grandiosa mole sacrense- là dove i piedi del pellegrino appoggiano proprio sul culmine del monte Pirchiriano.

L’atmosfera è estremamente energetica, soprattutto in questa parte dell’antico santuario in cui si percepisce –con più vigore, complice il raccoglimento- la sacralità del luogo.

Le fonti riguardo l’erezione del primo nucleo della Sacra mancano o sono insicure; mentre le supposizioni riguardo l’origine si fanno numerose, si attorcigliano in maniera confusa. La più parte degli storici conviene nell’individuare qui la prima Sacra, quale momento storico originario del suo culto a San Michele. La cappella più vasta ha la parte di fondo di roccia viva ed è un ampliamento delle altre due: la sua costruzione risale prima dell’anno Mille -alla fine del 900- ed è opera degli angeli e di San Giovanni Vincenzo. Questa cappella è certamente il luogo più sacro di tutta la Sacra.

Il più grande affresco conservato nella Sacra è l’Assunzione. Risale al 1505 e si trova sulla parete sinistra di chi entra in chiesa. È stato eseguito -in gran parte- da Secondo del Bosco di Poirino.

L’autore di questa Assunzione –chiunque sia stato- seppe ripartire lo spazio in modo equilibrato e con ottimo criterio suddividendovi tre scene: la prima nel registro inferiore descrive la Sepoltura di Gesù; nel secondo registro la dormitio di Maria -soggetto piuttosto insolito e raro nell’iconografia cristiana-; nel terzo registro invece la Madonna Assunta.

Eccellente è la scena che narra il Cristo calato nel sepolcro, molteplici i dati che la rendono un unicum: da un lato l’espressività del viso che esprime con grande pathos dolore, ciò è reso maggiormente dal movimento accentrato delle persone. La tipicità di quest’illustrazione è ancora più la genuina freschezza dei colori, specialmente riuscito –nella sua ieratica semplicità composta- il bel corpo di Gesù morto.

Il trittico è quanto di meglio si serbi alla Sacra, è ora attaccato alla parete occidentale del Coro Vecchio.

Una dolce Madonna allatta il Bambino Gesù –un altro unicum della storia dell’arte: la raffigurazione della Madonna del latte-, spicca al centro del trittico, domina in piedi, dagli occhietti guizzanti ed un poco ansiosi. Lateralmente –ai lati della Madre di Dio- altri due pannelli che rappresentano l’uno San Michele Arcangelo –nell’atto di sterminare con forza il demonio-, mentre l’altro presenta San Giovanni Vincenzo, che mostra alla Vergine il committente dell’opera Urbano di Miolans.

La grazia del Bambinello è eccezionale. Si osservino la faccia e le mani della Madonna che dimostrano una grande e raffinata compostezza. Il realismo descrittivo del piccolo Gesù è impressionante: i capelli hanno l’apparenza una lieve superficie di seta, naturalissima la collocazione dei piedini. Il viso di Maria è amorevole, sintesi di virtù quale la modestia dello sguardo, la freschezza della bocca che ispira fiducia e amore compassionevole verso il suo Bimbetto. La Vergine è avvolta da un’aureola dorata a forma di mandorla.

Completa questa tavola centrale lo zoccolo del trittico che illustra -in una squisita predella- altre scene della vita di Maria quali: la Visitazione di Maria, la Natività di nostro Signore e l’Adorazione dei Magi. L’autore sintetizza molti motivi iconografici con un’originalità ed una padronanza degna di un grande maestro che conosce molto bene non solo la storia dell’arte cristiana, ma anche la teologia.

L’affresco dell’antica leggenda é ubicato sulla parete destra del Coro Vecchio e riepiloga la storia, mista a leggenda, della fondazione del Santuario.

Schiere angeliche e colombe muovono le travi dal monte Caprasio alla cima del Pirchiriano per l’edificazione della prima chiesetta dedicata a San Michele Arcangelo.

Amizzone -Vescovo di Torino- che ascende da Avigliana e trova la chiesa già consacrata dagli Angeli è illustrato al centro della scena, mentre a sinistra –sul fondo- il corteo di Ugo di Montboissier che da Susa si porta verso il Pirchiriano per fondarvi il Monastero.

Adiacenti la chiesa si scorgono -dal terrazzo- le rovine del grande monastero costruito fra il XII e il XV secolo. Lo sguardo che osserva –oltre allo stupendo scenario della piana- può scorgere imponenti massi di pietre che sono ciò che resta delle celle monastiche e cucine.

Un senso di commozione e di sgomento invade lo spirito di chi entra fra queste imponenti rovine e ammassi di pietre.

Il grandioso edificio a cinque piani, che oggi mostra solo pilastri, muraglioni enormi, archi terrificanti e barbacani, termina sul precipizio del monte con la cosiddetta Torre della Bell’Alda.

La torre Bell’Alda si intravede già da molto lontano. La costruzione è solitaria, staccata dal resto del monastero.

La fantasia popolare elaborò una leggenda popolare che si diffuse in valle: la bella Alda spiccò da lì il salto per sfuggire a soldati di ventura, si gettò nel sottostante burrone rimanendo illesa.

Purtroppo tentò nuovamente –questa volta per vanità e denaro- ed il suo corpo si massacrò sfracellandosi sulle profonde scogliere.

Un altro ambiente visionabile è l’officina, luogo estremamente caratteristico poiché costruito con mattoni a vista -oggi anneriti dal tempo e dal fumo-, strutturata in una bellissima volta a botte.

L’edificio fu fatto per effettuarvi al suo interno lavori artigianali o di riparazione degli attrezzi. Fino agli anni ’40 dello scorso secolo sulla parete di fondo del locale era inserita una forgia.

Nel 1987 sotto il pavimento del corridoio che percorre il piano sottostante il “coro vecchio” venne scoperto un piccolo locale, probabilmente una cella eremitica.

Lo spazio è estremamente angusto, misura appena due metri di lato.

Durante il ritrovamento era tutto ingombro di macerie. Una volta asportati i detriti si è giunti alla originaria pavimentazione su cui vi erano assicelle di legno, viluppi di corda e resti di cera di candele liquefatte assieme.

La scoperta più significativa si riferisce a due preziose monete d’argento coniate dai vescovi di Le Puy (fine X secolo) e dai Visconti di Limoges (fine X inizi XI secolo). Queste due medaglie coniate hanno consentito di attribuire la data di costruzione dello spazio ritrovato e anche di individuarne l’utilizzo da parte della comunità monastica quale ripostiglio, prima che fosse abbandonato. Altre ipotesi sull’uso di quest’ambiente ritengono che tale spazio fu la cella dell’eremita San Giovanni Vincenzo o di altri monaci che lì si ritiravano per pregare in solitudine, isolati dagli altri confratelli, ma prossimi alla comunità monastica.

La buona tecnica costruttiva fa anche considerare che la minuta stanzetta si debba mettere in comunicazione al cantiere della costruzione della primigenia chiesa abbaziale, a prescindere dall’uso residenziale o meno cui fu destinata prima di trasformarsi in fondaco.

«Ho due stanze piene di libri –diceva il Priore di San Michele, Benedetto Juniore – e non li ho ancora letti tutti, ma vi studio sopra ogni giorno. Non esiste libro sulla terra che io non l’abbia….».

Questa la dichiarazione resa a Limoges nel 1031 durante Concilio dei rappresentanti delle grandi abbazie benedettine d’Europa riunitisi per discutere dell’Ordine Benedettino e fare il punto della diffusione nelle diverse regioni.

Le parole dell’allora Priore sono il più remoto segno dell’estesa e ben corredata biblioteca abbaziale che -dopo la soppressione del 1622- scomparve, probabilmente disseminata in tutto il mondo.

Nell’ottobre del 1836 sorse l’odierna biblioteca, quando sul Monte Pirchiriano si insediò a custodia della Sacra di San Michele l’Ordine dei Padri Rosminiani.

Addirittura due giorni dopo l’arrivo dei primi religiosi, fu lo stesso Rosmini a spedire una comunicazione da Stresa con l’elenco dei libri da acquistare.

L’originaria biblioteca conteneva circa 300 tomi dei secoli XVII e XVIII e, con il tempo, vi si immagazzina un patrimonio importante di testi, sino a raggiungere il numero di circa ottomila volumi -tutti riordinati e schedati-, tenendo conto del sistema della Biblioteca Vaticana, dal paziente e ininterrotto lavoro di un gruppo di studiosi volontari. Oggi la biblioteca è a disposizione di studiosi e studenti, su prenotazione.

Il Museo del quotidiano è posto in un Locale al piano d’entrata del Monastero vecchio, impiegato in passato dapprima come legnaia e poi come ripostiglio.

La sede è oggi ubicata in un piccolo museo che raccoglie macchinari ed utensili da lavoro d’epoca in uso nelle officine dei fabbri o nelle falegnamerie e curiosità sulla civiltà, gli strumenti preindustriali e l’artigianato presente in questa regione subalpina.

L’esposizione mette in luce l’importanza del Monte Pirchiriano nella costruzione dell’abbazia, difatti la parete settentrionale della stanza è completamente di roccia, definendo così la sua funzione di supporto e di sostegno all’intero complesso della Sacra.

Come si è già sottolineato poc’anzi, negli ultimi anni la Sacra ha avuto un interesse speciale -generoso ed incoraggiante- da parte di vari enti (pubblici e privati).

Un’intelligente azione la svolgono da sempre le soprintendenze ai beni architettonici ed artistici: studi mirati sollecitano e garantiscono gli indispensabili interventi di restauro da parte degli organi statali competenti.

Solo recentemente l’ente Regione Piemonte ha disposto dei mezzi per occuparsi seriamente della Sacra: sta lavorando in modo deciso e confortante dopo che è riuscita ad averla definitivamente in concessione dal demanio. La Regione si è anche adoperata per ottenerne la proprietà.

Le più recenti opere di ripristino hanno interessato il rifacimento del tetto della chiesa, unitamente a quello del vecchio convento. È stato inoltre restaurato il Portale dello Zodiaco, contemporaneamente a pregiate tavole e tele, è stato inoltre eseguito l’intervento del cosiddetto Sepolcro dei Monaci. A questo si è aggiunto il recupero conservativo entro il monastero vecchio, nelle antiche foresterie e sala del pellegrino, sugli archi rampanti.

In questi ultimi anni -unitamente ai lavori di ripristino di alcune strutture e restauro conservativo- la Sacra ha ricominciato a vivere grazie anche a iniziative culturali che l’hanno resa una Comunità molto attiva a livello intellettuale.

L’atto sacrense più rilevante è stata la convenzione stipulata tra regione Piemonte e padri Rosminiani nel 1995. In essa si puntualizzano e si garantiscono -attraverso la presenza dei Rosminiani- i compiti di vigilanza e di ordinaria manutenzione, di sicurezza e di conservazione, di diffusione culturale e di fruizione della Sacra, senza tralasciare la cura liturgica del santuario, il servizio di accompagnamento-guida ai visitatori, l’accoglienza ed ospitalità per una condivisione dell’attività spirituale. Nonostante lo scorrere del tempo, la Sacra si conferma quale centro privilegiato di formazione alla vita consacrata, di ricerca della spiritualità e di promozione culturale.

1Che è il complesso santuariale del Mont-Saint Michel.

2La magnifica Sacra di San Michele.