Le Commende stefaniane: libro del Cav. Dr.ssa Chiara Benedetta Rita Varisco

2 Marzo 2024 · Notizie · Ultimo aggiornamento il 3 Marzo 2024

«NON MI RESTA CHE PRESENTARLO PER QUEL CHE È:
IL MEMENTO DI UN ARTIGIANO CHE HA SEMPRE AMATO MEDITARE
SUL PROPRIO COMPITO QUOTIDIANO,
IL TACCUINO DI UN OPERAIO CHE, PUR AVENDO A LUNGO MANEGGIATO TESA E LIVELLO,
NON SI CREDE, PER CIÒ, UN MATEMATICO».
(MARC BLOCH, Apologia della Storia, Torino, 1969, p. 35)

Con queste parole affidai alla stampa le mie riflessioni storico giuridiche sull’istituto commendale in seno al Sacro Militare Ordine di Santo Stefano Papa e Martire (Le Commende stefaniane, Effigi, 2012), senza la presunzione di poter racchiudere tra le pagine di un libro la poliedricità che contraddistinse l’ultima sacra milizia, voluta da Papa Pio IV il 1 ottobre 1561 e affidata in perpetuo al Serenissimo Dux Etruriae. I primigeni Ordini Militari – di cui anche Santo Stefano Papa e Martire fa parte – sono la sintesi del medioevo, sommatoria di due categorie: oratores – coloro che pregano (monaci, chierici) – e bellatores – coloro che combattono (i cosiddetti milites, cioè i nobili); questi speciali sodalizi sorti per volontà pontificia servirono a presidiare le rotte dei pellegrini diretti ai Loca Sancta. L’Ordine di Santo Stefano non fu solo marinaresco, come erroneamente taluni ritennero: in seguito alla riforma lorenese perse il suo aspetto navale per divenire istituzione di formazione culturale e così la Scuola Maggiore della Carovana, con il suo Palazzo, divenne la Scuola Normale di Pisa per l’educazione dei Militi e degli insegnanti superiori. Inoltre i Lorena determinarono le bonifiche delle Maremme (grossetana e Val di Chiana).

La natura del Sacro Militare Ordine di Santo Stefano Papa e Martire è decisamente complessa, poiché ente di formazione della classe dirigente granducale e soggetto giuridico dotato di personalità canonica in quanto costituito dalla volontà pontificia. L’aspetto più moderno consisteva nella possibilità per i Cavalieri di ricevere una Commenda: per anzianità di servizio in Carovana – ovvero sui navigli stefaniani, dopo aver frequentato una primigenia Accademia di Marina (da cui sorgerà quella di Livorno) di Pisa in piazza dei Cavalieri -; per giustizia, potendo vantare i quattro quarti di nobiltà e la nascita in una delle città nobili – dopo un adeguato processo teso a provare la nobiltà del candidato -; in ultimo, ed è questo l’elemento di modernità rispetto alle altre monarchie, per grazia del Serenissimo Gran Maestro, istituendo una Commenda di Padronato e cedendo una parte degli averi dell’ammittendo per l’accrescimento dell’Ordine che costituiva la difesa morale, materiale e militare della Toscana, il neofita veniva considerato con efficacia presuntiva assoluta – iuris et de iure – nobile in forza del conferimento commendario ricevendo l’investitura per grazia principesca. Tale conferimento rappresenta un pretium dignitatis per l’ammissione alla Sacra Militia – per sé e per i suoi successori in commenda -, in caso di mancanza di quarti di nobiltà, o semplicemente un salarium dignitatis.

Si segnala come l’actio finium regundorum fra gli utraque iura, riguardo la commenda, fosse già da tempo una realtà. Il diritto dei summisti e la canonistica si erano aperti alla differenziazione dei vari tipi contrattuali – secolari e non – fino ad arrivare a distinguere fra le dotazioni beneficiali presenti nell’ordinamento canonico e le situazioni reali in ambito secolare a contenuto beneficiale.

è opportuno precisare che la nuova categoria giuridica della commenda stefaniana fu forgiata all’interno dell’ordinamento toscano dal Legislatore mediceo, ma in paticolar modo dalla giurisprudenza rotale e consulente. La commenda rappresentò l’antecedente logico, necessario strumento per attuare il disegno di politica interna di Cosimo I de’ Medici volto alla creazione di una gestione unitaria della terra e di una nuova classe dirigente fedele al Granduca.

Sulla qualificazione giuridica delle commende stefaniane ad oggi non è stato ancora condotto uno studio organico. Gli storici del diritto dall’origine dell’Ordine fino ai giorni nostri si sono occupati marginalmente dell’istituto, nonostante ben oltre duecento filze dell’Archivio di Stato di Pisa riguardino direttamente le Domus dell’Ordine di Santo Stefano[1].

La normativa di riferimento può ricavarsi da svariate fonti ora conservate nell’Archivio di Stato di Pisa, tra le quali meritano particolare attenzione le Memorie istoriche di Dal Borgo, edite nel 1755 unitamente agli Statuti, privilegi e doveri fiscali dei Commendatori.

Gli Statuti dell’Ordine stefaniano riprendono la prassi melitense che consisteva nell’organizzare dei patrimoni dedicati e vincolati: lo zweckvermögen[2], che nell’ambito del Diritto Comune Canonico era formato da un patrimonio vincolato ad un fine, economicamente indipendente e, come nel caso della commenda stefaniana, non sottoposto a tassazione, così come specifica Gierke[3] e in tempi più recenti Montorzi.

Il Principe è il culmen dignitatum che istituisce direttamente la nobilitazione personale, a prescindere se sia il neofita de iure sanguinis appartenente ad una famiglia che possa vantare i quattro quarti di nobiltà da cinque generazioni, ogni argomentazione a riguardo riveste carattere eminentemente politico[4], Cosimo I de’ Medici sostituisce la vecchia nobiltà di genere con un nuovo sistema nobiliare di rango. L’ostacolo delle prove di nobiltà poteva essere superato vincolando beni immobili o mobili all’Ordine di cui si poteva percepire i frutti e che sarebbe rimasto in possesso della famiglia, sino all’eventuale estinzione[5].

La Militia Stefaniana era l’unica istituzione granducale sino al 1750, allorquando vennero emanate le Leggi sulla nobiltà e cittadinanza, in grado di conferire la qualifica nobiliare a qualsivoglia cittadino toscano. Dal XVI alla metà del XVIII secolo essa rappresentò il solo organismo che, conferendo il titolo cavalleresco, riconosceva contemporaneamente la nobiltà dell’investito: il Granduca, infatti, non poteva rilasciare le cosiddette “patenti di nobiltà”, mentre poteva – verificati i quarti di nobiltà – conferire l’abito dell’Ordine di Santo Stefano[6].

Francesco Ansaldi userà metafore barocche per esprimere il dirompere di questa politica nuova, sino ad asserire che Pio IV si sarebbe divisato di introdurre in Toscana l’istituto feudale attraverso quello cavalleresco nella seconda metà del Cinquecento «ad bellum, principali et unico proposito, contro Turcas»[7] e che i rimedi militari introdotti erano «ut Pyrrho aemularentur, qui adversus Romanos pugnans primos in Italiam elephantes de Epiro conduxit»[8]. Cosimo, così come Pirro portò gli elefanti, introdusse due sorprese sotto il profilo istituzionale: il Feudo e l’Ordine di Santo Stefano. Le commende stefaniane[9] non possono essere ricondotte dal punto di vista sostanziale ad un beneficio ecclesiastico, posto che «ius vero commendae patronat. Non aliqua lege, non simplici consensu, fundanti et dotanti conceditur, sed ad libitum et pro libito, non Priorum, baiulivorum provinciarum, loco Episcoporum, sed Serenissimi Magni Magistri, loco Papae, ex pacto expresso, non tacita natura donatur»[10]. Acclarata la natura laica dello ius patronatus praeceptoriale e quindi delle Commende dell’Ordine di Santo Stefano, Ansaldi afferma che «non dissimilem a feudo commendam, ius Commendatorum patronatus, secundum feudorum iura determinandum esse»[11] ed esplicita inoltre la funzione «sicuti feuda introducta fuerunt, sive servitia feudalia, ut vassalli tenerentur adiuvare dominum, contra ipsius domini inimicos. Et Militia ad regni defensionem, et hostium propulsationem fuit inventa»[12].

Elemento essenziale del rapporto vassallatico era certamente la fedeltà giurata al dominus, anche per quanto concerne la commenda stefaniana «iuratur fidelitas per militem in habitus susceptione Serenissimo Magno Magistro»[13]. Il beneficio commendale viene assunto per investitura[14], a riprova del fatto che esiste un continuum fra l’atto di investitura cavalleresca medievale e la costituzione di commenda in seno alla Militia stefaniana.

Tramite dissertazioni di natura canonistica, Ansaldi afferma che la commenda stefaniana può essere assimilata ad uno stipendio militare sottoposta ai principi beneficiari del diritto feudale – «sicuti commendas, ita feuda concedere Principis est»[15] – e quindi non subordinata al diritto canonico[16].

La novità cosimiana potremmo indicarla come una vera e propria mescolanza sociale, tanto che Pompeo Neri esecrò con diffidenza l’istituto della commenda, impiegando vere e proprie invettive rispetto il suo uso beneficiale perpetrato in Toscana. Il Neri disdegnò l’utilizzo della commenda stefaniana come poco commendevole prodotto di un’interversione causale, in cui un negozio originariamente configurato, generale ed astratto, diventava lo strumento ed il prodotto di disposizioni personali e particolari. In tal modo si passava dall’accertamento della cosiddetta nobiltà naturale dei soggetti giuridici, all’intervento di selezione politica, nonché di omologazione istituzionale di colui che esercitava il potere sovrano, il Gran Maestro – Granduca principe della Toscana riunita.

Il Granducato si evolse in un anomalo congegno politico, che potremmo definire misto, poiché unificava due poteri: quello militare e quello civile, in grado di prestare un servizio pubblico e di elargire dignità civili.

L’utilizzo beneficiale della commenda nell’ambito dell’Ordine di Santo Stefano è indubbiamente un meccanismo che possiamo definire negoziale e che consentì, a livello economico e giuridico, il sorgere di una nobiltà civile di tipo venale, determinando la nobilitazione giuspadronale della nuova recluta, che disponeva di una commenda data alla Sacra Militia per perseguire le finalità della Religione stefaniana.

La commenda, in questa anomala ed unica assegnazione, precipua del regno toscano, entro gli estremi delineati e apparentemente contraddittori – poiché violavano la proprietà del neofita e lo investivano di una nobiltà minore – consentì al sovrano un aumento di rendite e di fedelissimi.

Emergono elementi tutt’altro che casuali, che tenevano conto di un negozio bilaterale – di diritto pubblico – in cui lo status nobiliare veniva ceduto ex nutu dal serenissimo Gran Maestro e Principe. Questi assegnava onorificenze, ma soprattutto contribuiva a retribuire il servizio reso dal cavaliere mediante il conferimento commendatario.

Dall’analisi degli Statuti e delle controverse interpretazioni giuridiche coeve e successive alla stesura cosimiana si può concludere certamente che l’istituto commendale stefaniano fu in limine fra diritto feudale e diritto civile, diritto canonico e diritto statutario. Si tratta di una “novità antica” che porta con sé la saggezza e il mistero di un’epoca certamente passata, il medioevo, e fa tesoro di un modello di leadership vincente, capace di consolidare l’identità politica del popolo toscano. Bisogna ricordare, infatti, che il sistema commendale voluto da Cosimo I de’ Medici costituì la forma di “gestione della terra” fino all’unità d’Italia.

[1] Distribuite fra registri, strumenti di fondazione e visite, oltre ad un migliaio di filze relative direttamente o indirettamente alle commende.

[2] Zweckvermögen significa letteralmente, dal tedesco, patrimonio destinato ad uno scopo.

[3] Cfr. O. v. Gierke, Das deutsche Genossenschaftrecht, die Staats und Korporationis lebre des Alterhums und ihre Aufnahme in Deutschland, Darmstadt, 1881, p. 801.

[4] «Quondam patronatus commendam etiam ipsemet fundator, nisi habitu indutus militari et professus, consequi nullo pacto potest, ex necessario conseguenti erit concludendum nullum commendatorem patronatus posse dare, qui non sit nobilis, vel genere, vel Gratia Principis; nam, si qua non nobilis vestiatur miles, nobilitatem consequitur»: F. Ansaldi, Consilia sive responsa quibus materiae beneficiorum ecclesiasticorum suscipiendorum ordinum, Cons. XIV, nn. 41-43, f. 76.

[5] F. Angiolini, Lo stemma e la spada. La devozione di Santo Stefano e le sue reliquie. Atti del Convegno (cenacolo dei Cavalieri 11 novembre 2006), Pisa, 2008, pp. 105-128.

[6] Angiolini, I cavalieri e il principe. L’Ordine di Santo Stefano e la società toscana in epoca moderna, Firenze, 1996, pp. 119-141.

[7] Ansaldi, Consilia sive responsa, cit., Cons. XIV, n. 97, f. 80.

[8] Ansaldi, Consilia sive responsa, cit., Cons. XIV, n. 98, f. 98.

[9] «Commenda est beneficium rei immobilis proprietate retenta, concessae, ut usufructus perpetuo in accipientem, et in ceteros post eum in fundatione commendae, sive investitura comprehensos masculos propter fidelitatem transeat»: Ansaldi, Consilia sive responsa, cit., Cons. XIV, n.117, f. 81.

[10] Ansaldi, Consilia sive responsa, cit., Cons. XII, n. 12, f. 39.

[11] Ansaldi, Consilia sive responsa, cit., Cons. XII, n. 61, f. 43.

[12] Ansaldi, Consilia sive responsa, cit., Cons. XII, n. 66, f. 43.

[13] Ibidem, n. 121, f. 81.

[14] «Et ideo sicuti ex dicto feudo pecunia empto debetur fidelitas, successores dicuntur habere a manibus Principis concedentis: ita Commendatarius commendae, pecunia, vel bonis quaesitae, habere commendam dicitur a manibus Serenissimi Magni Magistri, cui, dictae Militiae fidelitas, reverentia, obedientia debetur, uti supra in facto satis edoctum fuit»: Ansaldi, Consilia sive responsa, cit., Cons. XII, n. 70, f. 44.

[15] Ansaldi, Consilia sive responsa, cit., Cons. CXL, n. 22, f. 617.

[16] «Nam, ultra quam quod de bonis benefialibus et ecclesiasticis loquuntur, commendae vero stipendia militaria sint, non beneficia ecclesiastica: quia non propter ufficium, sed propter dimicandum cum inimicis barbaris conferuntur»: Ansaldi, Consilia sive responsa, cit., Cons. LVII, n. 67, f. 253.