Premessa cavalleresca

13 Gennaio 2020 · Notizie · Ultimo aggiornamento il 13 Marzo 2020

Per capire il medioevo bisognerebbe viverlo. Non potendo, poiché nato nel XX secolo, mi sono accinto a percorrere i luoghi di quel periodo. La difficoltà maggiore è provare ad immaginarsi il reticolo di sentieri, inconsistenti rispetto alle nostre infrastrutture: piccole mulattiere, strade a sterro ed ormai cancellate dall’abbandono del tempo, dell’inusuale percorrerle.

Un viaggio nel tempo per chi abituato a attraversare velocemente migliaia di chilometri in poche ore. Un viaggio nella fede, nella propria genesi. Mircea Eliade ben descrisse quest’inquietudine, una sorta di “nostalgia delle origini” che lega gli uomini di tutte le latitudini, di tutte le ere lungo la storia dell’umanità segnata da questo desiderio di andare, di farsi “peregrini”, di essere “homo religiosus” che diviene “homo viator”.

Ecco che il pellegrinaggio in sé e per sé non è che la metonimia dell’essere credenti, del porsi alla sequela, del volere scoprire la possibilità di essere altro, di lasciarsi abbracciare da quell’arcano tanto spesso ricercato. È l’esperienza del penitente che si pone alla ricerca dell’Assoluto, per farsi prossimo alla Divinità. Segue poi una spogliazione, ovvero l’abbandono dell’usuale campo d’azione e delle proprie radici, per seguire luoghi lontani, l’incognito ed avvicinarsi a Dio.

La difficoltà maggiore è pensare che “il cavallo di San Francesco” sono le proprie gambe, le vesciche ai piedi, le piaghe a volte, i calli, la fatica per qualcosa: l’ideale! Tutto si fa silenzio quando ci si accinge a scoprire il Divino facendo silenzio in sé, portando al seguito delle nostre preoccupazioni l’abbandono, la catarsi, quella «mistica disposizione al Silenzio, alla Sofferenza e al Sorridere» come soleva sottolineare nella sua Regula Sant’Ambrogio.

Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena nelle sue “Relazioni sul Governo della Toscana” così scrisse: «si va per tutte colline cretose, salite, discese, e pascolo e coltivate, con molte case sparse qua e là», questo lo scenario che ancor’oggi si presenta nella bassa Toscana. Descrivendo le terre attorno alla Commenda del Sagr’Ordine Militare di Santo Stefano Papa e Martire così si espresse: «quasi tutti li terreni intorno sono di varie case nobili, senesi, Borghesi, ma specialmente della casa Piccolomini Bellanti di Siena, che vi possiede fuori del castello una grossa fattoria con una molto buona casa. Tutti intorno li terreni, in specie il poggio sopra cui è il paese, è tutto ben coltivato a poderi con molte case sparse per la campagna ed in ispecie in buone pasture, vigne, oliveti belli grossi e molto ben tenuti essendovi l’olio di buona qualità».

Per intuire la ratio dell’uomo medioevale urge lasciarsi accompagnare da alcune linee guida, prime fra tutte l’analisi delle categorie sociali operata da Adalberone, vescovo di Laon chenacque intorno al 950. Viene spesso indicato dagli storici medievalisti e della Chiesa come l’autore della tripartizione sociale (oratores, bellatores et laboratores). Prese parte alle vicende politiche e religiose del tempo, difendendo l’antico ordine sociale; un esempio ne è la sua opera più significativa, il Carmen ad Robertum Regem, un poemetto in forma dialogica, scritto attorno il 1025 ed indirizzato al re Roberto II di Francia, affinché restaurasse la centralità del potere, minacciato dalle tendenze autonomistiche di feudatari e ordini monastici. E così scrisse il Duca-Vescovo di Laon: «la Chiesa con tutti i suoi fedeli forma un solo corpo, ma la società è divisa in tre ordini. Infatti la legge degli uomini distingue altre due condizioni: il nobile e il lavoratore. I nobili sono guerrieri, protettori della Chiesa, difendono con le loro armi tutto il popolo, grandi e piccoli, e ugualmente proteggono se stessi. L’altra classe è quella dei lavoratori. Ricchezze e vesti sono fornite a tutti dall’attività dei lavoratori e nessun uomo libero potrebbe vivere bene senza i lavoratori. Dunque la “città di Dio”, che si crede essere una sola, è in effetti triplice: alcuni pregano, altri combattono, e altri lavorano. Questi tre ordini vivono insieme e non possono essere separati; il servizio di uno solo permette l’attività degli altri due e ognuno di volta in volta offre il sostegno a tutti».

Cosa sono allora gli ordini monastico-cavallereschi? Come può un monaco armarsi? E come può se rapportato alla luce della fede cristiana che ripudia la guerra, la violenza, i soprusi?

La domanda ha assillato sino dagli albori della storia della chiesa cristiana persino i padri della nostra stessa fede. Mentre tutto si stava per compiere, un uomo –Giuda- con un bacio tradì il Figlio dell’Uomo e l’Evangelo lucano dice «allora quelli che stavano presso Lui, vedendo quello stava per accadere, domandarono: “Signore, dobbiamo colpire con la spada?” E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. Ma Gesù disse: “smettete, basta così!” E sfiorandogli l’orecchio lo guarì» (Lc 22, 48-52).

Certo è che gli Oratores-Bellatores fungono da servitori di tutta la Chiesa, dei penitenti che dall’Europa si recavano in Ultramare per trovare i luoghi cristici ed affondare i loro passi nelle orme tracciate da Gesù e dai suoi Apostoli. L’atto penitenziale del pellegrinaggio, emblema del medioevo e definito dalla figura dell’Homo Viator – il peregrinus– diviene la difficile e meritoria ricompensa del Christifideles che anela e si pone alla sequela di Cristo Signore.

La Prima Crociata è il pellegrinaggio armato verso la Città Santa, il cui telos non è solo pregare e meditare presso l’Anastasis gerosolimitana, o altre chiese quali la Natività (atto penitenziale), ma liberare i Loca Sancta della Palestina –in quanto patrimonio di Cristo– dalla dominazione musulmana.

Nel IV-V secolo d.C. Sant’Agostino, convertitosi grazie a Sant’Ambrogio a Milano, legittima l’azione belligerante teorizzando il principio della guerra giusta. Il vescovo d’Ippona asseriva che «giuste sono le guerre che vendicano le ingiustizie quando un popolo o uno stato, al quale deve essere fatto guerra, non ha punito le iniquità dei suoi o non ha restituito quel che attraverso queste ingiustizie è stato sottratto». È grazie al patrista che i cristiani iniziarono a praticare una legittima difesa, prima nemmeno teorizzata per una sorta di integralismo scaturente dal perdonare cristico. Nel VII secolo d.C. Isidoro di Siviglia completa la definizione di “guerra giusta” precisando che è lecita solo quando è «annunziata e per restituzione di cose o per respingere nemici».

Entrambe le definizioni vengono riprese nel Decretum Gratiani che distingue due tipi di violenza: una illegittima esercitata su innocenti (“poveri”, donne, bambini, chierici, contadini), per cupidigia e ricerca di vanagloria (guerre private, vendette, brigantaggio); ed un’altra invece consentita esercitata da un’autorità pubblica (re, principe, papa, vescovo).

I Templari assommano i due ordini dei bellatores e degli oratores tanto che San Bernardo da Chiaravalle così li descrive: «esito a chiamarli monaci o cavalieri. Come meglio designarli che attribuendo loro entrambi questi nomi contemporaneamente, dal momento che non manca loro né la mitezza del monaco, né il coraggio del cavaliere».

Il papato intendeva adoperare la cavalleria (il miles) al proprio servizio per difendere i propri possessi, o per combattere coloro che si opponevano alla riforma della chiesa, come Enrico IV, o che non si sottomettevano al potere spirituale.

L’espressione miles Cristi compare con papa Gregorio VII che definisce “soldati di Cristo” coloro che compiono una guerra santa, ovvero “giusta”, poiché in opposizione a tutti gli avversari della fede cristiana, della chiesa e del papato e quindi lecita poiché di difesa dagli arroganti aggressori.

Questa nuova categoria di guerra lecita –addirittura “santa” se compiuta in difesa della Chiesa– è rivolta contro la violenza gratuita e il brigantaggio selvaggio e viene esportata anche all’esterno: era giusto lottare contro gli eretici, gli infedeli, i nemici della chiesa e della fede come i pagani. Spagna e Sicilia vennero riconquistate, a spese degli infedeli, con la forza, mediante la guerra.

Questa santa guerra giusta appariva quale opera meritoria che si compiva contro i nemici della fede e della chiesa cristiana e colui che vi moriva aveva la palma del martire; si legge nel giuramento che devono prestare «andate dunque con piena fiducia, cavalieri, ed affrontate senza timori i nemici della Santa Croce di Cristo!»

L’idea della “Peregrinatio Armata”, soggiacente la Prima Crociata, volta a giustificare la guerra rifacendosi alla necessarietà della difesa, non andrebbe letta come “guerra santa”, di cui -però- apparirebbe come l’epilogo.

Il primo sodalizio sorto nei Loca Sancta da cui deriverà il primigenio Ordine Cavalleresco è quello di San Giovanni di Gerusalemme, fondato dal Beato Gherardo de Saxo, nativo di Scala, benedettino ed hospitalarius inviato dal suo Abate presso Gerusalemme per ampliare un Hospitium nel Muristan. Fra’ Gherardo edificò la domus hospitalis intorno al 1070 e solo nel 1113 con la Bulla Approbationis et Confirmationis Paschalis II venne riconosciuta dal papato questa fraternita dedita all’assistenza dei pellegrini, dei Signori Ammalati e Poveri.

Come fantasmi affiorano, cimeli di un glorioso passato che fu, santuari, poste, hospitalia, mulini, grancie, che servivano al pellegrino per potersi spostare e ricevere ospitalità. Si conta che nel medioevo ve ne fossero moltissime, oggi quasi scomparse.

Il penitente-pellegrino muove i suoi passi come in una danza; è quanto fanno i monacisufi, che tramite questo percorso si immettono in una realtà ultracorporea e extrasensoriale per giungere al nous, ovvero a quello che consideriamo lo Spirito. Il pellegrino «segue la musica del cuore» come sottolineava Monsignor Luigi Serenthà nel suo “danzare la vita, danzare la Croce”, perché per seguire Cristo occorre mettersi in moto.

Il monachesimo prende le mosse con i Santi Antonio e Pacomio inventori del monachesimo orientale insieme al dotto e potente Cassiodoro che dopo una vita diplomatica carica di titoli e benemerenze acquisite al servizio dell’Impero chiude i suoi giorni in Calabria fondando uno Scriptorium. I Santi Ambrogio ed Agostino a Milano –e le loro forme di monachesimo-, per giungere a San Benedetto da Norcia, a San Colombano e San Romualdo. Centrale la figura dell’abate Bernardo da Clairvaux, diffusore dell’Ordine Cistercense in Italia ed Europa che affida ad un mio conterraneo la difesa della sua missione: Fra’ Dalmazio da Verzario, il primo magister Templi di lingua italiana, una sorta di luogotenente del Gran Maestro per l’area italica.

Alcuni luoghi in particolare, grazie a segni ancora oggi evidenti, attraggono la nostra attenzione: si pensi alla Toscana, la ridente Maremma, regione apparentemente povera, cosparsa di testimonianze cavalleresche, da Chiusdino a Castiglione della Pescaia parla di santi-cavalieri convertiti.

L’interesse principale lungo il cammino è rivolto al particolare in relazione all’universale, partendo da quanto è validato dalla storia e da ciò che ne hanno scritto nel corso degli anni; ad esempio, Enea Silvio Piccolomini, pur essendo di Corsignano, l’attuale “Pienza” da cui deriva il nome, trascorreva le sue vacanze in Maremma in «un paesello alle falde del monte, che per bellezza del luogo è senza dubbio il primo fra quanti sorgono su quel versante». E verificando i vari insediamenti, le dotte citazioni mi hanno aiutato a comprendere molte suggestioni presenti nel territorio, è il caso di Dante Alighieri che nel suo canto VI del Purgatorio così scrive: «vieni crudel, vieni e vedi le pressure d’i tuoi gentili, e cura lor magagne; e vedrai Santafior com’è oscura». La Peschiera ed il suo hospitium che rivela il passaggio di pellegrini che stranamente non percorrevano né l’antica Cassia –molto bassa e ricca di predoni- né l’antica Aemilia Scauri inagibile per la malsanità dei luoghi bonificati solo dai Lorena. Perciò non restava che stare in costa, seguire i crinali ed affidarsi ai Cavalieri Giovanniti (al Priorato Gerosolimitano d’area tirrenica) ed ai Poveri Commilitoni di Cristo e del Tempio di Salomone. Ciò spiega il sorgere di numerosi siti templari in amene località, come Rocchette di Fazio che allo sguardo dell’Arciduca Pietro Leopoldo «sono un castello scosceso sopra la cima di un poggio, con vari monti intorno, macchie basse e pasture; in cima vi è la rocca antica tutta rovinata e cascata e non v’è altro che mura decrepite». L’antica pieve di Santa Cristina e l’hospitale di San Tomé dichiarano il passaggio di ordini monastico-cavallereschi e dell’intricato legame fra la famiglia comitale degli Aldobrandeschi e l’Ordine del Tempio.

Pio II scrive «Santa Fiora sorge su d’una rupe alta, difficile a scalarsi per le rocce scoscese che si protendono su abissi profondi». Attorno al Monte Amiata a volte pare di “perdere la bussola”, si avverte la potenza di questo monte che ospita comunità di monaci seguaci del Dalai Lama al Merigar, vide David Lazzaretti sul Monte Labro e ad Arcidosso e molto spesso ha dato al mondo l’ospitalità, come a Batignano al Venerabile Padre Giovanni di San Guglielmo eremitano agostiniano e a Don Zeno nella sua Nomadelfia. Una terra accogliente, quella maremmana, che a dispetto di molti lascia il cuore in pace fra le sue molli e lussureggianti colline. Pio II scriveva che «qua e là dalla rupe scaturiscono numerose sorgenti limpidissime» poiché la Maremma è terra d’acqua: dolce con l’Ombrone, l’Albegna ed il Fiora, salata con i suoi paduli, l’antico Lago di Castiglione, di cui restano le zone umide della Trappola in corrispondenza della foce del fiume Ombrone. Gli stessi Monti dell’Uccellina erano un’isola, così come il Monte Argentario e non è raro scorgere sul versante amiatino senese delle conchiglie fossili nelle biancane.

Padre Balducci scriveva «nello specchio mobile ho ritrovato il volto d’un tempo, di quando potevo inginocchiarmi in queste acque con uno stupore privo di nostalgie e colmo di presentimenti. Le polle affiorano con silenzioso rigoglio e fanno lago: tra i licheni e le alghe si affaccia il fondo renoso. Memorie medievali che filtravano nei racconti serali e ci teneva saldi in quel tempo senza tempo in cui entravano ed uscivano figure invisibili ma presenti, le fate o le anime dei morti, per sollievo delle quali si lasciava la brace accesa sotto la cenere». Storie che sanno di fede, pane e vino –fragrante e saporito come quello maremmano-, come Passitea, fondatrice del convento delle Cappuccine, che mise il piede sull’abbozzo di croce che il padre falegname stava scolpendo ed udì un gemito “perché mi calpesti?” Padre Balducci scrive: «quel crocifisso, tutto velato nel monastero e scoperto di tanto in tanto in casi di necessità, è stato il nume tutelare del paese». La Santa Croce di Gerusalemme presente in Maremma (si pensi al culto in Roccalbegna e ad Acquapendente) come Translatio Hierosolymae –un “Sacro Monte” grossetano è Sancta Maria Alborensis– con molti siti apparentemente anonimi ove il misticismo è legato alla fondazione di santuari mariani sparsi per tutto il grossetano.

I Poveri Commilitoni di Cristo e del Tempio di Salomone eleggono molti siti alla Theotokos, basti citare l’amiatina Sancta Maria ad Lamulas il cui culto nacque da un errore di un pastore che iniziò ad intagliare una “Vergine ed il Bimbo” in un tronco di legno che poi gettò nel fuoco; l’autore del gesto si spaventò perché udì una voce di donna che gli disse: «non mi bruciare! Son troppo bella» ed estrasse la Madonna sbozzata per cercare di salvarla alle fiamme. Spaventato il pastore la abbandonò nella boscaglia finché alcuni boscaioli di Arcidosso e altri di Montelaterone la rinvennero ed entrambi successivamente la reclamarono. Così i due gruppi di taglialegna decisero di affidare l’effige della Vergine ad una mula che non volle avvicinarsi né all’uno, né all’altro borgo; l’animale da soma si inginocchiò ai margini del bosco ed ancora oggi si possono ammirare le impronte sulla soglia dell’ingresso alla chiesa. In “Maremma terra di cavalieri” riflettevo sull’incidenza della toponimia templare che inconsapevolmente consideriamo anonima ciascun giorno: Peschiera, Spedaletto, Grancia, Santa Croce, Colombaia, Tempio. Tutti questi nomi rivendicherebbero il passaggio dei Poveri Commilitoni di Cristo e del Tempio di Salomone di cui è d’obbligo rammentare la centralità del rituale dell’Investitura dal Messale Romano del miles-monachus, del giuramento una volta creato dal De Laude Novae Militiae e della giornata dei milites Templi.

Un’ulteriore conferma del passaggio degli Ospedalieri di San Giovanni di Gerusalemme è rappresentato non soltanto dai documenti, rinvenuti anche presso la National Library of Malta, dai Cabrei e dalle mappe del Catasto Leopoldino agli Archivi di Stato di Firenze e Siena, ma anche dal culto alla Vergine di Tutte le Grazie che campeggia nell’altare di San Lorenzo in Grosseto così come il culto a San Rocco di Montpellier che venne invocato in Malta dai Giovanniti e divenne parte integrante delle celebrazioni della “Concezione”. Si pensi che dal XVII secolo l’icona del Phileremo era solennemente disvelata il giorno 8 dicembre ed un’immagine mariana giungeva presso la chiesa dell’Immacolata con il Gran Maestro, i Cavalieri, le Confraternite e la cittadinanza che si muovevano dalla chiesa conventuale di San Giovanni Battista a La Valletta (oggi Co-Cattedrale) verso il nuovo Tempio Mariano. L’immagine della Vergine restava nell’ottava presso l’altare di San Rocco e veniva ricondotta processionalmente il 15 dicembre. A livello statistico ho rinvenuto un oratorio, od una parrocchiale, dedicato a San Rocco di Montpellier in tutti i luoghi che videro il passaggio dei Giovanniti. Così anche in Maremma: a Massa Marittima, a Grosseto –ove addirittura era presente una chiesina che venne inglobata nel forte costruito nel XVIII secolo e da cui ha dato il nome al luogo (anticamente “San Rocco a Mare”) circostante ed al canale-, nel capoluogo bellissimi quadri del XVII secolo lo celebrano compatrono unitamente a San Lorenzo, sempre ai piedi della Madonna. San Rocco diviene il protettore della peste invocato anche dalla gente di mare, che richiede la protezione della “tem-peste”. Pierre Bolle riferisce che anticamente era invocato un Rochus oltralpe contro le tempeste e, successivamente al XIV secolo, si diffuse il culto del santo difensore degli appestati. “San Rocco a Mare” rappresenta un unicum che si mischia a quello molto più diffuso contro il contagio pestifero.

E poi, ancora centri piccoli come Seggiano e Santa Fiora ove tutto parla del santo pellegrino che doveva essere un Chevalier du Saint Esprit (ordine equestre estinto), figlio di una nobile famiglia di Montpellier –i De La Croix- che abbandonò, una volta orfano di entrambi i genitori, la sua città, gli studi presso l’accademia di medicina, donò tutto ai poveri e si mise in viaggio verso la Città Eterna. Oggi lo invochiamo, così come una ragazza in carrozzina la sera del 16 agosto durante la processione a Marina di Grosseto che urlava “San Rocco guariscimi”. È stato commovente partecipare alla processione per la cittadina balneare qualche anno orsono con il Vescovo S.E. Mons. Franco Agostinelli, il clero diocesano, i padri carmelitani che mantengono vivo in terra grossetana il culto a questo nobile santo che è disputato fra i padri Predicatori, Trinitari, Francescani e noi tutti. San Rocco ci perdoni e ci aiuti ad aiutare, ci conduca a Colei che noi invochiamo come la Mater Misericordiae! [AV]

Cav. Prof. Alessio Varisco,

Presidente dell’Accademia dei Cavalieri