Gentiluomo con tricorno o ritratto di Costantiniano di epoca Farnesiana di Fra’ Galgario

2 Maggio 2020 · In evidenza, Notizie · Ultimo aggiornamento il 2 Maggio 2020

AV – Il celeberrimo “Gentiluomo con tricorno” –di epoca farnesiana-, noto come “Ritratto di cavaliere dell’Ordine Costantiniano”, è attribuito dalla critica a Vittore Ghislandi, detto “Fra’ Galgario”, pittore nato a Bergamo nel 1655 e morto nel 1745. L’opera, un olio su tela delle dimensioni di 109,5×89 cm., è oggi custodita al Museo Poldi Pezzoli di Milano (inv. 93) ed è stata oggetto di molti studi, soprattutto poiché non esistono prove documentali della sua realizzazione che possano confortare lo studioso dichiarando il personaggio ritratto e l’anno di esecuzione.

Partiamo dai dati certi: è un Cavaliere Costantiniano, certamente dall’abito dell’inizio del XVIII secolo. Detto ciò notiamo la omega minuscola, dettaglio non scontato, che riporta l’opera ad un periodo successivo al XVII secolo ed al Sacro Militare Angelico Ordine Costantiniano di San Giorgio rifondato da Francesco Farnese, duca di Parma e Piacenza, nell’anno 1698, così da determinare un Ordine Cavalleresco anche per la dinastia dei Farnese.

Il quadro sconcerta non solo per la minutezza nella descrizione dei particolari, ma soprattutto per lo psicologismo che ci riporta all’autore, presumibilmente il Fra’ Galgario, di una fase pittorica matura, dal tratto quasi “nebuloso”. Francesco MariaTassi, nelle “Vite de’ pittori scultori e architetti bergamaschi” pubblicate in due tomi a Bergamo nel 1793 rivela come a fine attività: «havendo la mano alquanto tremante, il Galgario cominciò a dipignere col dito anulare».

Una mostra sul noto pittore bergamasco dell’Accademia di Carrara di Bergamo titolava la rassegna dedicata al concittadino “Le seduzioni del ritratto nel ‘700 europeo: Fra’ Galgario”. Certo è che con Fra’ Galgario la ritrattistica giunse ad alti livelli -non meramente espressivi, ma anche emotivi– secondo una linea nuova, originale, distante dal modo di eseguire ritratti alla francese -modo contraddistinto da una pittura aulica-. Il Ghislandi segnò un ponte fra il fare pittura alla lombarda e il vedutismo veneziano, mediato dall’incontro tra il neo-rembrandtismo dell’Europa centrale e la tradizione naturalistica tipica dell’area settentrionale dell’Italia.

Ciò che colpisce della poetica ghislandiana è indubbiamente l’ineguagliata sintesi tra maestria tecnica ed innata capacità all’introspezione, tutto questo si realizza grazie alla capacità del pittore che instaura un rapporto ove prevale l’empatia con i “soggetti ritratti”. L’artista riesce a penetrare il complesso gioco di relazioni psicologiche, sottilmente ed artisticamente espresse anche nel tratto, che sembra restituire visibili le virtù,

nonché le debolezze, le vacuità, la capacità seduttiva, la vanitas.Questo modo di affondare nella complessità dell’umanità, di farne un ritratto a tutto tondo consentì a Fra’ Galgario di essere apprezzato dai suoi committenti e di precorrere molti degli aspetti più precipui del gusto di fare modernità.

La tela presenta un elegante cavaliere con il tricorno in feltro nero merlato da una «guarnizione -come sottolinea Levi Pisetzky– di gallone d’argento, elaborato quasi come un pizzo», la marsina grigia bordata di un gallone chiaro ai lembi, il giustacuore in seta grigia ornato da ricami argentati e chiuso alla cinta da una fusciacca in seta bianca e azzurra, il busto d’acciaio su cui campeggia la Croce della Militia costantinia. La mano destra è posizionata dietro alla schiena, mentre la sinistra è inserita sul giustacuore e reca sul polso un bastone da passeggio con attaccato un nastro di raso rosso. In basso si scorge la spada, affrancata al fianco sinistro, si delinea dal limite inferiore l’impugnatura riccamente modanata. La parrucca argentea ha i capelli raccolti probabilmente a coda, come era gusto nel XVIII secolo, legata sul davanti da un nastro di seta nero che funge anche da cravatta. Questo tipo di acconciatura era tipica del mondo militare, attestata

dal 1713 ed era nota soprattutto in ambiente Britannico ove veniva indicata come tye-wig.

Il Testori sottolinea l’importanza di quest’opera quale una massima espressione artistica di Fra’ Galgario, attivo nella realizzazione di ritratti, certamente una delle più grandi realizzazioni di tutto il secolo, anche per la raffinatezza della resa dell’abbigliamento, accompagnata alla penetrante indagine introspettiva del pittore che descrive un gentiluomo agghindato di tutto punto per il passeggio, con la fierezza militare, il molle savoir faire di una nobiltà barocca. Taluni storici hanno sottolineato il carattere ambiguo del cavaliere, sottolineato dalle voluttuose labbra, lo sguardo trasognato potrebbe essere l’emblema della sua epoca, per farne persino una lettura etica o morale. L’identità è destinata a rimanere oscura, se non si eccettua qualche supposizione effettuata nello scorso secolo dal Nasalli Rocca che azzarda possa trattarsi del bergamasco Odoardo Pignetti (ministro dei Farnese a Parigi) oppure il Gian Andrea Angelo Comneno; entrambi risulterebbero scomparsi nel momento in cui venne effettuato il ritratto, il primo nel

1735 ed il secondo addirittura nel 1702; ritenendo l’opera dipinta nel 1745 bisogna dunque scartarle entrambe. Difatti, questa supposizione sembra possibile poiché gli storici dell’arte propendono per attribuire la tela al 1745, anche in virtù di certi elementi quali la pittura dominata da una gamma pittorica tendente al monocromo, con finissime e raffinate variazioni (il bianco e l’argento), interrotto solo dal rosso e dall’oro della croce costantiniana, dalle grosse labbra, nonché dal nastro del bastone -che esprimerebbe il comando- che è mero oggetto da passeggio.

L’esplicito status di aristocratico è reso stilisticamente in forma complessa e volutamente ambigua. Sotto i raffinatissimi abiti, la corazza metallica, con stemma, non

ha più alcuna funzione bellica ma allude simbolicamente all’origine del “potere”, ed è sorprendentemente accostata ad un oggetto la cui forma può evocare un “bastone di comando” ma che è inequivocabilmente un bastone da passeggio. In questi contrasti l’immagine indica l’appartenenza del nobiluomo ad una casta che non rinnega la sua matrice militare ma ne rifiuta ormai i comportamenti conseguenti.

La pittura è stesa pastosamente, tipica dell’ultimo periodo del Ghislandi, la tela pare voglia sottolineare questa molle e rassegnata ostinazione.

Il personaggio ritratto si presenta in abito “civile” ma ostenta sul petto una onorificenza militare, quell’insegna dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio che costituisce l’unico indizio per restituire una identità storica al cavaliere. Il mistero sulla persona contribuisce al fascino profondo del ritratto. Sia per la sensibilità dell’approccio psicologico dal quale risulta una “drammaticissima concentrazione di rammollimento cerebrale” (G. Testori, 1953), sia per la sua qualità pittorica, l’opera è stata sempre considerata tra i capolavori assoluti di Fra’ Galgario, ed anzi “una delle più grandi realizzazioni di tutto il secolo”. Costruito per sovrapposizione di pigmenti, in parte ad impasto, il dipinto è un’ulteriore espressione di quella ricerca che fa capo al “rifacimento” di Isabella Camozzi Gherardi e di Bertrama Daina de’ Valsecchi. Una ricerca tesa al superamento dei limiti di un pur stupefacente naturalismo a favore di una ritrattistica che indaga a fondo la persona, senza lasciarsi distrarre dal suo abito, e in forza della quale l’opera non è più solo immagine della realtà ma si fa, essa stessa, realtà.

Cav. Uff. Prof. ALESSIO VARISCO,

Direttore Antropologia Arte Sacra